“Dopo la liberazione del campo mi camminava vicino il comandante. Era un uomo crudele, alto ed elegante: si mise in mutande, era il primo di maggio. Si voleva rivestire, buttò via la divisa, buttò via la pistola.

Beh io lì non ero quella che sono oggi, mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre giorno dopo giorno ero diventata un’altra, quella che loro volevano che io diventassi, un essere insensibile. Pensai: adesso raccolgo la pistola che avevo tanto visto usare e gli sparo, perché mi sembrava proprio un giusto finale. Fu un attimo importantissimo e decisivo nella mia vita, perché capii che mai per nessun motivo al mondo avrei potuto uccidere qualcuno, che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”. È il messaggio finale lanciato dalla senatrice a vita Liliana Segre in quella che è stata l'ultima testimonianza alle scuole italiane e ai giovani del mondo, nel corso di una cerimonia - dal titolo “Grazie Liliana!” - svoltasi il 9 ottobre a Rondine (Arezzo), Cittadella della Pace, sede dell’organizzazione internazionale impegnata da oltre venti anni nella “trasformazione creativa” dei conflitti. Intervenuti il premier Giuseppe Conte, il presidente del Senato Elisabetta Casellati, il presidente della Camera Roberto Fico, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, mentre il capo dello Stato Sergio Mattarella ha inviato un messaggio. Un racconto, quello della testimone della Shoah, diretto e a tratti molto duro: “Non ho perdonato e non ho dimenticato, non ho questa forza, certe cose non sono riuscita mai a perdonarle”. Un racconto che parte dalle leggi razziali varate dal fascismo: “Avevo anche io la mia piccola vita, poi è stata interrotta un giorno di settembre del 1938: da allora sono diventata ‘l’altra’ e questa cosa è durata sempre, io sono sempre l’‘altra’ anche per chi non è antisemita”. “A 8 anni – racconta Segre - non sono potuta più andare a scuola: ero a tavola con mio papà e i miei nonni e mi dissero ‘tu non puoi più andare a scuola, sei stata espulsa’. Io chiesi subito ‘perché, perché, perché?’. Mi ricordo ancora gli sguardi di quelli che mi amavano…”. “Una delle cose più crudeli delle leggi razziali fasciste fu quella di far sentire i bambini invisibili” sottolinea la senatrice a vita, che rievoca gli anni della paura per gli ebrei italiani e dopo l’8 settembre del ’43, con l’invasione nazista, i tentativi di fuga per chi poteva. “Due famiglie mi nascosero per mesi, io non ero neanche gentile perché volevo tornare dalla mia famiglia, solo dopo capii che avevano rischiato la vita per salvare la mia”. “In Senato il primo giorno dissi: ‘sono stata clandestina sulle montagne e una richiedente asilo, perché di qua si moriva: so che cosa vuol dire essere stata respinta’” spiega poi la senatrice a vita raccontando il tentativo di fuga in Svizzera, quando venne respinta insieme al padre e vennero entrambi arrestati. “A San Vittore fui con mio papà nella nostra ultima ‘casina’, la cella 202 del quinto raggio che dividemmo 40 giorni. Furono 40 giorni importanti nella mia vita. C’era già la notizia che saremmo stati deportati. Lo abbracciavo, stava vivendo la tragedia di un padre che non era riuscito a portare in salvo il suo tesoro e io lo dovevo consolare, in quei momenti era mio figlio e non il papà. Gli ripetevo che qualunque cosa sarebbe successa io ero felice perché ero con lui”. Venne poi la partenza per “ignota destinazione”, la deportazione ad Auschwitz-Birkenau: “Attraversammo quella Milano indifferente e con le finestre chiuse, vidi la mia casa in lontananza e pensai: ‘mai più’. Al binario 21 fummo caricati con estrema violenza sui vagoni: non erano solo i nazisti, anzi questi erano aiutati da zelanti fascisti, erano i nostri vicini di casa e persone che non ebbero pietà”. Segre ricorda poi l’arrivo il 6 febbraio del ’44 sulla spianata di neve del campo, nel “silenzio solenne e indimenticabile di chi si avvicina alla morte, in cui valeva solo la propria interiorità”. “Eravamo sbalorditi – aggiunge - senza capire i linguaggi che si intrecciavano: quando il presidente Sassoli mi ha invitata al Parlamento europeo mi ha fatto un grande effetto l’intrecciarsi di bandiere che cercano o almeno ci provano ad andare d’accordo. Una cosa molto diversa”. Gli uomini vennero separati dalle donne: è in quel momento che il destino di Liliana si separò per sempre da quello del padre, avviato subito alla camera a gas: “Un tribunale con un credo razzista e di odio decideva la vita e la morte dell’altro, colpevole solo di essere l’altro. A 13 anni ero una ‘ragazzona’ che dimostrava più della sua età e fui scelta con altre 30 ragazze per lavorare, tutte le altre andarono al gas. Io vedevo da lontano mio papà, cercavo di fargli dei piccoli saluti ma poi non lo vidi mai più”. Varcato il famigerato cancello del lager, racconta Liliana, accade che “la paura di morire per un sì e per un no fa sì che tu diventi quello che gli aguzzini vogliono che tu sia, non più umana. Dopo il distacco dalla mano di mio padre non cercavo più amicizia”. Poi c’era il lavoro: “Portavo il materiale con cui le operaie facevano bossoli per le mitragliatrici, la mia referente era una ragazza francese di nome Janine, più grande di me. Un giorno una macchina le tagliò due falangi delle dita di una mano e quando fummo mandate alla selezione lei non serviva più e fu mandata al gas. E io, che tutti i giorni lavoravo con lei, non mi sono voltata per dirle qualcosa, anche solo il suo nome: non accettavo più i distacchi. Il giorno dopo portai il materiale a un’altra operaia. Ma non mi scordai mai più di lei, fu talmente importante questo ricordo di me stessa orribile e di lei che senza colpa andava al gas che nella mia testimonianza Janine è una figura centrale: il suo non diventare quella donna che sarebbe stata, non diventare madre, non diventare nonna, è legato al mio non essere, al mio aver perso ogni dignità: ero solo in quel momento una prigioniera che si era salvata e non le importava null’altro”. Il ricordo di Janine è stato centrale anche nel giorno in cui la Segre lascia virtualmente il testimone della memoria ai giovani di tutto il mondo nella Cittadella della Pace: a lei è infatti dedicata un’Arena a Rondine, dove sul prato verde è rappresentata l’ombra di un cancello, segno che tutti i cancelli possono diventare ombra.