L’atteggiamento più aperto nei confronti dei lavoratori immigrati portò a facilitare anche il processo di acquisizione della cittadinanza (tra il 1985 e il 2000 furono 68.000 i casi di acquisizione di cittadinanza belga per gli italiani) e, quindi, ad allargare anche il diritto di voto. Le seconde generazioni – rileva l’analisi - si sono avvalse pienamente di queste opportunità e, senza più sentirsi in difficoltà per la diversità della loro origine, si sono fatte protagoniste di un inserimento lavorativo sempre più egualitario: non più solo minatori, ma anche lavoratori qualificati, impiegati, imprenditori, professionisti e funzionari comunitari.

Secondo fonti italiane, sino al 1970 si sono recate in Belgio poco più di 250.000 persone (un numero, per diverse ragioni, da ritenere sottostimato). La punta più alta si è raggiunta nel 1958 con ben 46.000 espatri in un solo anno. Numeri che, pur diminuiti successivamente, hanno portato gli italiani ad essere la prima collettività straniera in Belgio sino alla fine del secolo (attualmente sono al terzo posto). “È comprensibile chiedersi cosa ci si possa aspettare da questo investimento in capitale umano – si legge nella ricerca di IDOS -. Agli italiani, attualmente residenti in Belgio, si aggiunge un flusso continuo di intellettuali, esperti, professionisti, manager, giornalisti, lobbisti, stagisti, studenti e operatori sociali (lo stesso Franco Pittau a Bruxelles iniziò il suo impegno da studioso di emigrazione). Il caso belga sottolinea la necessità di una politica migratoria basata sulle pari opportunità e sul dialogo interculturale e raccomanda una maggiore attenzione alle collettività italiane all’estero, in particolare agli italiani che ancora non hanno acquisito la cittadinanza del Paese in cui lavorano e risiedono. La stessa storia dell’emigrazione, come ha ricordato Gianluca Lodetti del Patronato Inas nel tirare le conclusioni del saggio, va valorizzata per coltivare le prospettive d’impegno futuro, anche e soprattutto in senso geopolitico”.