Le guerre che oggi si combattono per il petrolio, in futuro si combatteranno per l’acqua? Questa domanda è da anni al centro di un dibattito scientifico sulle le cause di queste guerre e il modo in cui devono essere studiate. Uno studio pubblicato sulla prestigiosa Nature Sustainability da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano ha indagato il fenomeno, anche alla luce di “nuove” tipologie di conflitto in cui gruppi paramilitari sembrano sfruttare a loro vantaggio situazioni di stress ambientale. 

Alla base del lavoro c’è l’unione di modellazione idrologica e analisi statistiche, combinata a un’attenzione particolare per i meccanismi socio-ambientali, culturali e politici, usata per studiare le caratteristiche socio-idrologiche dei conflitti nella regione del lago Ciad, in Africa centrale. Questa regione è stata colpita, negli ultimi 20 anni, da diversi conflitti, come l’insorgenza di Boko Haram, la guerra civile in Darfur, e i colpi di stato della Repubblica Centrafricana. Oltre ad analizzare dati sul livello di sviluppo umano, urbanizzazione nella regione e composizione etnica della popolazione, i ricercatori hanno usato un modello per creare indicatori di disponibilità di acqua e suolo per l’agricoltura e, in generale, per il sostentamento umano. Questi dati sono stati messi in relazione ai conflitti nella regione tra il 2000 e il 2015 ed è stato sviluppato un metodo che, attraverso un approccio multi-prospettiva è in grado di esplorare relazioni più secondarie, indirette e complesse all’interno del nesso acqua-conflitto. Da una parte i conflitti tendono a insistere sugli stessi luoghi e a espandersi verso le zone più prossime. La maggior parte dei conflitti avviene in località fortemente “anomale”, dal punto di vista della disponibilità dell’acqua, rispetto al resto della regione, e il tipo di anomalia tende ad essere correlato alla dinamica del conflitto.