Stefania PrandiStefania Prandi, nella foto a sinsitra,  giovane giornalista e fotografa, da anni si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, società e ambiente. Ha realizzato molti reportage in giro per il mondo, e il suo ultimo libro, è il risultato di un’inchiesta che lei ha svolto con i propri mezzi, sullo sfruttamento delle lavoratrici nei campi di raccolta, in sud Italia, Marocco e Spagna. Un’indagine accurata, minuziosa, d’informazione e denuncia, che porta il lettore a riflettere su un problema conosciuto, non nuovo, ma al quale giriamo le spalle nell’indifferenza più assoluta. 

Dopo aver letto “Oro Rosso”, non sarà più possibile aprire una confezione di pomodori, fragole o qualsiasi altro frutto o ortaggio, senza pensare che  sotto l’imballaggio, troviamo omertà,  e sfruttamento di lavoratrici, che hanno l’unica colpa, quella di aver bisogno urgente di un lavoro e di pochi soldi al mese per crescere i loro figli e sostenere le proprie famiglie. Tante donne, tanti nomi, tante storie, accumunate da un triste destino, rimanere nell’immobilità del non cambiamento, perché finché non ci tocca da vicino, il problema sembra lontano o quasi non esistere.

 

Copertina Oro Rosso“Oro rosso”, è il titolo della tua inchiesta, diventata poi un libro, come è nato il tuo interesse a questo argomento?

Dal 2010 mi occupo di questioni di genere e diritti umani. Dopo avere lavorato come giornalista professionista nelle redazioni di cronaca, dove seguivo tematiche come immigrazione, disabilità, lavoro e ambiente, ho studiato questioni di genere in Svezia e poi mi sono formata per qualche tempo negli Stati Uniti. Tre anni fa, dopo essere venuta a conoscenza degli abusi sulle braccianti romene nelle campagne di Vittoria, in Sicilia, ho iniziato a fare ricerche, a leggere testi accademici e ricerche sul tema e da lì ho deciso di andare sul luogo, per iniziare il lavoro che poi si è esteso ad altre zone.

Quanti mesi ti ha occupata e come hai reperito i mezzi e fondi per affrontare viaggi e spese nelle varie nazioni?

Il reportage in tutto, tra documentazione, ricerche e interviste sul campo è durato oltre due anni con più di centotrenta interviste tra sindacati, associazioni, ricercatrici, lavoratrici. Essendo un lavoro da freelancer, la ricerca dei fondi è stata laboriosa perché per ogni zona che ho visitato avevo bisogno di un budget minimo per coprire le spese degli spostamenti, dell’alloggio, di chi mi ha messo in contatto con le lavoratrici e ha tradotto le lingue che non conoscevo, come l’arabo e il romeno. Per riuscire a sostenere i costi vivi del progetto ho vinto dei grant, ho collaborato all’organizzazione di un crowdfunding e ho avuto anche il supporto di Business and Professional Women (BPW) Ticino. In generale è stata molto importante l’attenzione iniziale che ho trovato in Svizzera per la realizzazione del progetto. Mi ha fatto capire che stavo andando nella direzione giusta.

Quali sono le nazioni dove hai svolto le tue interviste?

Italia, in Puglia e Sicilia, Spagna, nella provincia di Huelva, in Andalusia, e in Marocco, nell’area di Souss-Massa.

Quali sono gli ostacoli che hai incontrato maggiormente?

È stato difficile condurre l’inchiesta a causa della mancanza di consapevolezza e dell’omertà diffusa. Spesso mi è stato consigliato, o meglio intimato, di lasciare perdere. La violenza sul lavoro, che include molestie sessuali, insulti, aggressioni fisiche, ricatti, fino al vero e proprio stupro, nei paesi del Mediterraneo sui quali mi sono concentrata perché sono tra i principali esportatori di verdura e frutta in Europa, è ancora tabù. È difficile da riconoscere e nominare per associazioni e sindacati, non viene considerata a dovere da chi ha il compito di esercitare la legge e quindi per le donne è difficilissimo sperare di avere giustizia. Inoltre nella zona di Huelva, in particolare, si preferisce non parlarne proprio perché si teme che possa danneggiare il territorio. Il fenomeno dilaga, tra il silenzio e il beneplacito generali. 

I tuoi reportage, hai viaggiato sola nella campagne, dove i giornalisti non sono certo ben visti, non hai mai avuto paura? e c’è stato un momento nel quale hai rischiato la vita ?

Ho cercato di correre un rischio calcolato e nella maggior parte dei casi ho sempre cercato di andare accompagnata da qualcuno che conoscesse il territorio, anche perché avrei messo a repentaglio le stesse braccianti se qualcosa fosse andato storto. Le lavoratrici vivono sotto scacco perenne: già essere viste in compagnia di una giornalista per loro significa correre il rischio di perdere il lavoro o peggio, di essere picchiate.

La maggior parte delle lavoranti è donna nella raccolta della frutta e verdura, perché?

Secondo sindacalisti, associazioni e accademici a raccogliere la frutta ci sono soprattutto le donne perché costano meno degli uomini, pur svolgendo le stesse mansioni, e non si ribellano perché hanno sulle spalle il carico familiare; spesso sono madri single, divorziate oppure hanno mariti disoccupati. Inoltre, nelle culture alle quali mi riferisco, mediterranee e maciste, le donne vengono cresciute fin da piccole con l’idea che sia necessario ubbidire e sacrificarsi in tutto e per tutto per il bene della famiglia. Quando si chiede agli abitanti delle zone dove ho realizzato l’inchiesta, perché vengono scelte soprattutto le donne, in genere ci si sente rispondere che sono predisposte “per natura” alla raccolta, perché sarebbero più delicate e pazienti. Si tratta ovviamente di uno stereotipo culturale. Anche gli uomini hanno dita delicate, pensiamo ai chirurghi, ad esempio, oppure agli artisti.

Quali sono le nazionalità impiegate nei campi che hai trovato maggiormente?

Romene, bulgare, polacche, marocchine ma anche spagnole e italiane.

Nel sud Italia, il problema del caporalato e dello sfruttamento sessuale non è nuovo, ma nonostante le inchieste, a parte dopo qualche indignazione, non succede nulla, come lo spieghi questo?

Non è completamente corretto dire che non succede proprio nulla. Soprattutto in Puglia c’è una parte della società civile che vorrebbe un cambiamento, e anche in Sicilia ci sono persone come Don Beniamino Sacco che da anni denuncia gli abusi, nonostante le critiche. Inoltre, è stata approvata la legge anti-caporalato che dal punto di vista formale fornisce uno strumento importante per la punibilità di caporali e proprietari che compiono i crimini. Certamente tutto questo non è ancora abbastanza, come ho potuto constatare di persona. A frenare le spinte di cambiamento, ci sono fattori socioculturali e un mercato del lavoro deregolarizzato, dove non ci sono diritti per i più deboli, ma vige la legge del più forte. È incredibile come in Italia decenni di conquiste sul lavoro siano state spazzate via in pochi anni e a pagarne le conseguenze siano proprio le classi meno abbienti. Nello specifico, c’è la paura delle donne di denunciare, la responsabilità delle istituzioni che non fanno controlli, non favoriscono le denunce e anzi, spesso non credono alle lavoratrici, i processi faticosi, lunghi, e costosi, la precarietà e la povertà. Se si ha bisogno di lavorare perché questa è l’unica fonte di reddito, non ci si può permettere di perdere il posto con il rischio di restare disoccupate chissà per quanto tempo, magari anni perché si viene bollate come "ribelli".

Alcune donne hanno denunciato alle autorità dei casi di sfruttamento, ma la maggior parte delle inchieste sono state archiviate e loro hanno perso il lavoro…

Questo è il rischio di quando si denuncia. Ho raccontato questi casi proprio per mostrare come sia ingenuo pensare che il meccanismo della violenza sul lavoro si possa risolvere contando soltanto sull'iniziativa delle vittime. Se esistono certi crimini è anche perché esiste una società che li tollera e li fomenta. Le donne devono potere denunciare con la certezza di essere credute e di essere sostenute nei processi. Purtroppo, nei casi che ho analizzato, non è proprio vero che la giustizia è uguale per tutti.

Come hanno reagito le donne dei campi, quando hai sottoposto loro la possibilità di raccontarsi e magari denunciare?

In generale le donne vogliono parlare e vogliono avere giustizia. Molte sono consapevoli della loro condizione di subalternità e vorrebbero avere più diritti, ma non sanno come. È chiaro che c’è la paura di parlare, per ragioni anche di incolumità fisica, ma nel momento in cui capiscono che possono fidarsi dell’interlocutrice, perché i nomi vengono cambiati e si riporta quello che ritengono non pericoloso, allora ecco che parlano. 

Perché un datore di lavoro si sente di avere il diritto di abusare di una donna? Perché non si può dire di non al giorno d’oggi? 

I datori sanno di essere impuniti. Considerano le lavoratrici loro proprietà. Per le donne è difficile dire di no perché per farlo hanno bisogno di rendersi conto subito di quello che sta succedendo. Purtroppo la violenza può arrivare alla fine di un’escalation di fatti apparentemente tollerabili. Inoltre, bisogna sapersi difendere e avere un’alternativa per salvarsi.

La maggior parte dei datori di lavoro è spostato con famiglia, non è colpa delle loro mogli se le cose non cambiano?  Che esempio danno ai propri figli?

Credo che sia opportuno, quando si parla di colpe e responsabilità, focalizzarsi prima di tutto su chi commette il reato e l’abuso. Se i datori di lavoro commettono violenze e stupri è prima di tutto colpa loro. Poi c’è un sistema che li protegge, un’omertà diffusa. La società attorno ai padroni, che sono quelli che detengono il potere, innanzitutto economico, pensa che sia colpa delle lavoratrici che vengono considerate delle poco di buono, delle provocatrici. Si pensa che a loro “piaccia” essere molestate.

Del caso Weinstein, se ne parla ancora perché ha coinvolto il mondo patinato di Hollywood, ma sembra che il pensare sempre che siano le donne a provocare o a cercarsela, non sia tanto cambiato, nonostante gli scandali denunciati…

La mentalità che ancora affligge determinati territori più di altri è penalizzante e mortificante nei confronti delle vittime di abusi sul lavoro. Il caso Weinstein è emblematico, e speriamo che lo sia anche il processo, ma per le donne non famose il percorso per avere giustizia è ancora lungo.

Come possiamo noi nel nostro piccolo, non alimentare l’oro rosso?

Questo libro è un tentativo di raccontare degli spaccati di realtà e mostrare la possibile ampiezza di un fenomeno sistematico come quello della violenza sul lavoro. Credo che già un primo passo, per chi è interessato a capire le condizioni di chi raccoglie e impacchetta la verdura che arriva sulle nostre tavole, sia quello di rendersi conto di come stanno le cose. Il passo successivo è fare in modo che si crei un'opinione pubblica per un cambiamento concreto. 

 

 

 Stefania Prandi

Oro rosso

Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo

Casa editrice Settenove 

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