olmocerriOlmo Cerri,nella foto a sinistra, è un giovane regista ticinese che con grande delicatezza e realismo ci porta con il suo documentario "Non ho l’età", a conoscere gli italiani che negli anni sessanta, lasciavano l’Italia per cercare un futuro migliore. 

Il regista parte da un ritornello di una canzone famosissima, resa tale  grazie alla facilità del motivo, “non ho l’età”, cantata da una giovanissima Gigliola Cinquetti che incarnava all’epoca anche l’immagina dell’ anti diva una ragazza acqua e sapone che con le sue canzoni teneva compagnia ai tanti italiani all’estero.

La cantante riceveva migliaia di lettere dai suoi connazionali, e da queste lettere custodite ad oggi in un archivio, il regista ha “trovato” i suoi personaggi chiave, quattro storie da raccontare, complementari, ma diverse. 

Storie di riscatto, speranza e amore verso il proprio paese mai dimenticato, ecco con con il suo documentario, si rivivono le scene di quegli anni, e i protagonisti con semplicità si raccontano in un nostalgico ricordo del loro percorso ed inserimento in Svizzera.

Un tema sempre attuale e oggi più che mai, immagini e suoni, che ci aiutano anche a riflettere sul difficile momento che l’Europa si vede affrontare, senza essere preparata ai costanti flussi migratori. 

Grazie alla disponibilità del suo ideatore e regista, il ritornello “ Non ho l’età”, lo ascolteremo con una sensibilità maggiore: 

 

 

Come è nato questo documentario?

nonholetaMi sono imbattuto nel lavoro di una giovane storica ticinese, Daniela Delmenico, che nella propria tesi aveva affrontato l’argomento “migrazione italiana nel mondo” in una chiave assolutamente originale. Daniela aveva analizzato la situazione materiale ed emotiva di diverse centinaia di migranti italiani “sfortunatamente all’estero” utilizzando le lettere che questi avevano inviato a Gigliola Cinquetti, diventata una celebrità in tutto il mondo dopo la vittoria a Sanremo con Non ho l’età (per amarti). Quale migliore materiale delle parole degli stessi protagonisti per raccontare “l’elemento” umano del fenomeno migratorio? La visita al Museo di Trento, dove queste lettere sono tuttora custodite, e l'incontro con il Professor Quinto Antonelli che dirige le ricerche, è stata la chiave di volta dello sviluppo del lavoro portato avanti con la sceneggiatrice Simona Casonato. Ho trovato poi interesse produttivo da parte di una casa di produzione di Lugano, Amka film che assieme a REC e con importante sostegno della Radiotelevisione Svizzera hanno finanziato il progetto.

Gigliola Cinquetti ha collaborato con entusiasmo al progetto?

Gigliola Cinquetti è stata molto disponibile e non ha avuto nulla da ridire sul fatto che lavorassimo sulle sue lettere. Abbiamo potuto incontrarla in occasione di un concerto che si è tenuto presso gli studi della RSI a Lugano. La sua presenza però, lo si capisce vedendo il film, è poco più di uno spunto introduttivo, una scusa narrativa, per parlare poi delle vicende migratorie ed esistenziali dei nostri quattro protagonisti.

Come ha scelto i protagonisti del documentario, viste le tante di lettere disponibili? 

Tra le migliaia di lettere che i fan hanno spedito alla cantante veronese, ci siamo concentrati su quelle che erano più ricche di spunti biografici: abbiamo quasi immediatamente escluso le lettere in cui vi era solo una richiesta di autografo o dei complimenti generici. Per il documentario era necessario trovare delle missive più ricche di dettagli relativi alla vita in Svizzera e che lasciassero anche uno spazio all’emozioni. Poi c'è stato un lungo e delicato lavoro di ricerca, per rintracciare gli scriventi, di cui non è stato facile ritrovare dei contatti ancora validi. In cinquant’anni sono molti i cambiamenti nella vita di un migrante (traslochi, matrimoni, cambiamento di cognome, decessi, eccetera). Ci siamo basati sui pochi indizi contenuti nelle lettere. Abbiamo trovato poi molta diffidenza rispetto ai contatti telefonici, c’è molta paura delle truffe e del telemarketing. Era poi necessario che i protagonisti del film avessero delle storie differenti e complementari per poter raccontare almeno una parte dello spettro di esperienze migratorie possibili. La scelta quindi non è stata facile e il percorso di ricerca è durato diversi anni.

Quali erano le richieste più frequenti e che immagine davano questi italiani all’estero?

Gli italiani che scrivevano a Gigliola erano spesso in situazione di parziale indigenza, per cui le richieste fatte erano spesso di tipo monetario o materiale. Spesso si chiedevano soldi, vestiti o altri tipi di aiuto. In tanti però fra gli scriventi, chiedevano ed offrivano amicizia, desideravano uno scambio di opinioni su un tema specifico, proponevano dei testi di canzoni o poesie, c'erano richieste di matrimonio o di conoscenza reciproca. Lo spettro di richieste era molto vario. Le lettere dei migranti in Svizzera raccontano un’epoca dal punto di vista di chi l’ha vissuta in prima persona, una narrazione che privilegia il racconto “dal basso” e non quello “ufficiale”, “dall’alto”. Fra le righe di queste lettere, scritte spesso con calligrafa incerta e su carta di riciclo, si ritrovano i sogni e le passioni di una generazione e costituiscono così testimonianza di un periodo storico molto particolare in cui l’alfabetizzazione, soprattutto quella delle fasce meno abbienti della popolazione, non era ancora del tutto acquisita.

Che cosa rappresentava la canzone italiana per loro?

La canzone italiana era un legame con la propria terra, con la propria lingua e cultura. Era qualcosa che andava molto al di là della musica. Era un modo per costruire e confermare la propria identità. “Non ho l'età” e la giovanissima Gigliola Cinquetti, che si presentava allora in TV e sui rotocalchi come una figura angelica, una brava ragazza, semplice e “acqua e sapone”, in un mondo che si avvicinava a grandi passi agli sconvolgimenti sociopolitici del '68, erano poi delle figure molto rassicuranti. Alcuni eventi musicali come il Festival di Sanremo, trasmessi in Eurovisione, venivano fruiti in maniera collettiva dagli emigranti in Svizzera nei bar e nei circoli che già disponevano di una televisione. Diventavano quindi dei momenti importanti di aggregazione e socializzazione, che sono rimasti impressi nella memoria di molti. 

Ha scelto di raccontare di un periodo in cui gli italiani non avevano vita facile in Svizzera, i protagonisti hanno parlato volentieri della loro esperienza?

Non è stato facile per i protagonisti raccontare. Penso che lo abbiano fatto con grande onestà, apertura e generosità e di questo sono loro molto riconoscente. Forse è stato anche la scusa per “fare il punto” sulla storia della propria famiglia. C’era anche, da parte loro, la voglia di condividere con il pubblico le proprie esperienze e le proprie battaglie, forse un modo per sentirsi meno soli e anche per denunciare, finalmente, alcune delle ingiustizie subite.

I migranti italiani avevano un grande rispetto per le leggi e le autorità elvetiche, ma nessun amore verso la patria che li ospitava, pochi imparavano la lingua, e la maggior parte restava in cerchie ristrette di italiani…

Non sono d'accordo. Nonostante le difficoltà c'era chi apprezzava la vita in Svizzera, per le possibilità di lavoro, di studio, per la libertà guadagnata (magari da famiglie o paesi in cui il controllo sociale era estremo). Sono molte le coppie miste e le contaminazioni sociali e culturali di ogni tipo. Molti italiani (magari oggi pensionati), perfettamente integrati, non vorrebbero tornare in Italia e sono felici di trascorrere in Svizzera gli ultimi anni di vita. Solitamente dopo un primo periodo in cui “il clan di espatriati” fungeva da punto di riferimento, si riusciva a creare relazioni con il tessuto sociale circostante. Naturalmente ogni storia e diversa e le esperienze sono veramente molto variate e c'è anche chi non si è mai integrato e ha preferito ritornarsene al paese natale.

Ha ancora senso oggi parlare di italianità e della sua conservazione oggi in Svizzera? 

Penso che ogni differenza e identità culturale debba venir accolta e valorizzata in Svizzera, senza volerla però mettere “sotto una campana di vetro”. Credo che il meticciato e le contaminazioni siano una grande ricchezza per tutti. Mi piacerebbe che questo documentario possa fornire anche una nota di speranza: nonostante le difficoltà che si incontrano, nel giro di una o due generazioni, l’integrazione è possibile. I migranti diventano una ricchezza a tutti gli effetti per la società di accoglienza, e viceversa un migrante può avere tutta una serie di benefici reali (non solo da profilo economico) grazie a questa esperienza.

La Svizzera, per tanti italiani, è stata un cattivo esempio di chiusura e xenofobia. Perché nonostante siano passati pochi decenni, sembra che ci si sia dimenticati che cosa vuol dire essere dei migranti?

Tutto il film vuole portare avanti anche, sullo sfondo, un discorso più generale sul tema della migrazione. Un parallelo fra i flussi migratori di quegli anni e quello che sta accadendo oggi alle porte dell’Europa, con le quasi quotidiane tragedie nel Mediterraneo. Naturalmente la situazione è molto diversa e difficilmente paragonabile, ma mi stupisce sempre come chi, fino a pochi anni fa era migrante (penso agli italiani nel mondo, ma anche alle grandi migrazioni ticinesi nelle americhe) non sappia immedesimarsi e accogliere. Ho l'impressione, generale, che sia molto difficile imparare dal proprio passato ed evitare di commettere gli stessi errori. Bisogna dire però che oggi il razzismo è costruito e alimentato in maniera quasi scientifica da gruppi e partiti che traggono benefici da uno stato di cose come quello attuale.

 Tra i protagonisti a quale si è affezionato di più e perché?

Ho costruito un rapporto diverso, ma egualmente saldo, con ognuno dei quattro protagonisti. Hanno caratteri e modalità di affrontare la vita molto diverse, ma provo un grande affetto nei loro confronti. Interessante che quasi tutti i protagonisti hanno potuto conoscersi fra di loro e abbiamo intrapreso insieme diversi piccoli viaggi per partecipare a festival e proiezioni. Sono state molte le esperienze forti condivise. 

Da dove vengono i materiali d’archivio contenuti nel documentario?

I filmati vengono per buona parte dal preziosissimo archivio conservato dalla Televisione Svizzera, l'esibizione sanremese di Gigliola Cinquetti proviene invece dalle teche della RAI. Altre immagini, molto emozionanti, sono tratte dal film "Siamo italiani" di Alexander J. Seiler, un film girato nel 1964, in cui il regista svizzero racconta la quotidianità degli italiani emigrati. Un film incredibilmente moderno che andrebbe rivisto. Ho un grande debito di gratitudine con la montatrice del film, Kathrin Pluess che ha saputo lavorare in maniera molto competente con questi archivi. 

Dove si potrà vedere prossimamente il Suo lavoro?

Sono diverse le proiezioni in programma, In Svizzera e in Italia, vi rimando al sito internet www.nonholeta.ch per l'elenco completo. Stiamo anche preparando un DVD che sarà distribuito nel corso dell'autunno, con sottotitoli e parecchi approfondimenti e materiali extra, ma che può già essere pre-ordinato inviando una mail a This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.al costo di CHF 24.50 (spedizione in Svizzera inclusa).

Da ticinese, come vede i frontalieri?

I frontalieri per il Ticino sono una grandissima risorsa, a livello di competenze e di forza lavoro. Mi danno molto fastidio quegli imprenditori che speculano su questa presenza, offrendo salari da fame e condizioni di lavoro inaccettabili e non sopporto quei politici che utilizzano i frontalieri come capro espiatorio di tutti i mali del nostro cantone. 

 

Nella foto sopra a destra la foto della locandiana del documentario " Non ho l'età".

 

 

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