Active ImageGraziano Tassello, missionario della Congregazione dei missionari scalabriniani, oltre ad occuparsi della missione di lingua italiana di Allschwil e del Leimental (Basilea Campagna), tiene corsi al SIMI, un istituto di pastorale migratoria collegato all'Università Urbaniana di Roma, è Consigliere di nomina governativa del CGIE(Consiglio Generale degli Italiani all'Estero), organismo in cui attualmente ricopre la carica di Presidente della quarta Commissione tematica “Scuola e cultura”. (Foto:Padre G. Tassello e il Ministro Tremaglia)

Lo abbiamo incontrato, a Basilea, al Centro Studi e Ricerche per l'Emigrazione(CSERPE) da lui diretto e, gentilmente, ci ha rilasciato questa intervista. 

 

 

 

La congregazione degli Scalabriniani, di cui  fai parte, opera da più di centoventi anni nel mondo dell'emigrazione. 

Nel 1887, quando Scalabrini fonda due congregazioni religiose per assistere gli emigrati italiani nelle Americhe, i nostri connazionali  erano considerati il gruppo più disgraziato. Da tanti era ritenuto assurdo investire energie in questa categoria di persone. Possiamo ricordare la citazione di un articolo apparso sul giornale cattolico “Times-Union” di Jacksonville, Florida il 4.6.1891 per comprendere meglio che cosa gli americani pensassero degli italiani del tempo e la lungimiranza di Scalabrini nell’impegnarsi a loro favore: 

“Soprattutto gli italiani non sono assimilabili, e si dovrebbero adottare misure per controllare l’invasione degli immigrati da quella nazione... La nostra nazione deve smettere di essere il ricettacolo di quella che è la più degradata e criminale popolazione d’Europa. Il mercato del lavoro americano è più che saturo attraverso l’importazione di manodopera a basso costo. E nostro dovere come nazione prendere misure per proteggere noi stessi e la nostra civiltà superiore da ogni troppo pericolosa contaminazione”.

Scalabrini vuole provare il contrario. E la storia gli ha dato ragione. Il suo non era solo un impegno di promozione umana e di salvaguardia della fede nei confronti dei migranti, ma anche di denuncia contro i soprusi e di sensibilizzazione dei paesi di partenza e di arrivo.Dopo le Americhe, sbarchiamo in Europa e, successivamente in Australia, Asia e Africa. Attualmente siamo presenti in 30 nazioni, cercando di offrire dei modelli di promozione umana e cristiana che possano essere utili a quanti sono impegnati in questo ambito, sviluppando una teologia dell’accoglienza e sempre fermamente convinti che i migranti, se rispettati e amati, costituiscono un’enorme risorsa per il paese che li ospita. 

 

Ci potresti illustrare brevemente quali sono le vostre attività in generale e in Svizzera in particolare?

  In Svizzera, come del resto nelle altre missioni in Europa, ci impegniamo a rispondere alle esigenze più marcatamente religiose degli italiani. A differenza di altri contesti, infatti, qui le risposte in ambito sociale e culturale sono date da patronati ed altri enti di varia natura.L’impegno attuale è quello di far vivere ai cattolici di lingua italiana la loro vocazione all’interno della chiesa locale, dove non sono chiamati ad essere assimilati tout-court e a far perdere la traccia della loro ricchezza ed originalità, ma a immettere la loro originalità anche in campo  religioso, contribuendo così alla crescita della chiesa locale, chiamata a vivere in pieno la nota della cattolicità. Questa riscoperta da parte del migrante della sua vocazione in ambito religioso va di pari passo con una educazione all’accoglienza e all’accettazione dell’altro, che ci sforziamo di fare nelle nostre sessioni di formazione.Gestiamo in Svizzera alcune missione italiane, portoghesi e di lingua spagnola. Ma prestiamo anche attenzione, seppure saltuaria, ad altri gruppi arrivati di recente.Accanto alla direzione di missioni, investiamo energie e mezzi nella stampa, nell’animazione culturale e in alcuni centri di studio, come il CSER di Roma, il CIEMI di Parigi e il CSERPE a Basilea.

 Per le attività di ricerca ricevete dei fondi dal Ministero degli Esteri o della Cultura? 

  Per quanto concerne il nostro centro di Basilea- CSERPE non riceviamo alcun tipo di sussidio né dal MAE né da altri ministeri. La nostra Congregazione, qui come altrove, ritiene importante investire in questo settore documentaristico e di ricerca perché è indispensabile convincere gli studiosi ad interessarsi maggiormente  del fenomeno migratorio. D’altro canto vogliamo seguire l’evoluzione in atto per permettere ai nostri operatori pastorali i necessari aggiornamenti.Presentiamo regolarmente bozze di progetti alle fondazioni. Gioca a nostro sfavore il fatto di essere un organismo privato e di matrice religiosa.

 E per quelle di assistenza ai bisognosi?

 Nemmeno per questo. Da tempo il Comites di Basilea o il Consolato non danno sussidi di alcun genere per l’assistenza che le missioni, comunque, continuano a garantire a persone in necessità. Ci era stato chiesto di segnalare i nominativi delle persone assistite per poter accedere ai fondi: per noi ciò costituisce una offesa alla dignità delle persone. Oggi poi è ampiamente risaputo che numerosi Comites non sono molto teneri nei confronti delle iniziative di varia natura portate avanti dalle missioni. Per questi enti il dialogo e la sinergia sono parole che vanno bene in alcune occasioni, ma non in altre. In Svizzera questo scontro ormai più che secolare tra missioni e altre forze dovrebbe cessare!

 In un articolo di tre anni fa,  hai sostenuto che i due settori che richiedono più investimenti e maggiori innovazioni sono la cultura e l'informazione. Sei sempre di questo avviso?

 Sì, oggi più di ieri. Corriamo il rischio di fomentare una comunità di tele-dipendenti che non ragionano più con la loro testa e subiscono passivamente questo processo di colonizzazione. Temo che stiamo perdendo la libertà di ragionare con la nostra testa.In questa fase di transizione è quanto mai necessaria una stampa che aiuti a riflettere.Quanto alla sfida della promozione linguistica e culturale, se non investiamo di più e meglio, saremo destinati a scomparire come comunità nel giro di pochi decenni. E non mi si venga dire che abbiamo ancora la pizza e il caffè, ormai egregiamente preparati anche da cultori del gusto di altre nazioni. Avremo in Europa, come nelle Americhe, molti cognomi italiani, e nient’altro. Non mi interessa salvare la “civiltà italiana” per motivi nazionalistici. Per me è molto più importante e stimolante immettere in Europa determinati valori di cui siamo portatori che ci aprano agli altri. Se conosco bene la mia cultura e la amo, non ho complessi di inferiorità nei confronti di altre culture. Anzi la mia cultura mi obbliga ad aprirmi ad esse con intelligente curiosità, ad interagire con esse. Questa cross-cultural fertilization produrrà una novità di vita. Ogni cultura che muore produce effetti devastanti su tutti. Inoltre bisogna tener presente che in emigrazione è nata una cultura “nuova”, quanto mai necessaria all’Italia per gestire al meglio il fenomeno immigratorio.

 Anche durante la campagna elettorale si è fatto un gran parlare della riforma della legge 153/71 concernente i corsi di lingua e cultura. Cosa ne pensi delle proposte di legge che sono state presentate in Parlamento?

 Spero che la proposta Narducci presentata nella precedente legislatura venga ripresa al più presto e che vada di pari passo con una radicale riforma degli IIC(Istituti Italiani di Cultura)  all’interno di una strategia globale che superi una buona volta il frazionamento di tante iniziative che si disperdono in mille rivoli che non creano nulla di nuovo. In questo processo occorre coinvolgere le forze vive della comunità. La rivitalizzazione del Piano paese è un percorso obbligato. 

Dopo le recenti polemiche, senti anche tu l'esigenza di un codice etico nel mondo dell'informazione diretta alle collettività emigrate per contrastare lo scadimento in atto?

In emigrazione si assiste, nel piccolo, alla imitazione delle peggiori trovate portate avanti in Italia. A volte alcune testate di emigrazione sembrano sopravvivere solo perché danno molto spazio a polemiche e personalismi senza senso. Inoltre alcune testate  dichiarano tirature assai improbabili. Professionalità ed onestà cercansi.

 Il CGIE è ancora uno strumento utile?

Sì. E ora più che mai. Il CGIE è momento di ascolto, è capacità di recepire le nuove sfide, è ambito di riflessione e di ricerca di nuove strategie che possano illuminare il governo e il parlamento ad operare scelte più oculate. Per essere tutto questo non occorrono tante riforme, quanto piuttosto il desiderio di uscire una buona volta dal nostro piccolo mondo, troppe volte segnato da assurde lotte interne e da difese ad oltranza di interessi di parte o di nazione, per pensare al bene della comunità. Il CGIE deve capire che deve fare i conti con una comunità che non è più oggetto di assistenza, sebbene parecchi stiano ancora cercando di manipolarla in un’ottica mercantilistica (“a che cosa serve” , “a che cosa mi serve” l’emigrazione). Il CGIE deve essere voce di una comunità che invece ha voglia di far sentire la sua voce e la sua esperienza.Senza un contatto regolare con il CGIE, i parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero diverrebbero solo cornice. 

Nei tuoi testi, riferendoti al mondo dell'emigrazione, usi frequentemente il concetto di diaspora, come mai?

 Esistono nel mondo due grandi diaspore, quella ebraica e quella cinese.Non si tratta solo di numeri, ma di un legame profondo che unisce queste popolazioni residenti fuori della madre patria, un legame permeato di valori che resistono anche in “terra straniera” e danno un forte senso di coesione a tutto il gruppo. Si dice che gli oriundi italiani nel mondo siano più di 50 milioni. Noi pecchiamo di un “fai da te”, che ci porta a vivere un individualismo sfrenato in ambito sociale. Ma in emigrazione si è riscoperto il senso di italianità, vi sono dei valori comuni, forse non sempre in evidenza, al di là di tribalismi arcaici. Far crescere questo senso di appartenenza, questa italianità come fattore di coesione, una italianità non più italo-centrica ma mondo-centrica è vivere l’esperienza della diaspora.Di fatto però questa crescita della coscienza di diaspora è stata spesso impedita da politiche a corto raggio, da sfruttamenti avvilenti o da disinteresse. O diventiamo diaspora o saremo condannati all’invisibilità.