foa Marcello Foa, a lungo firma de Il Giornale, ora dirige il gruppo editoriale svizzero TImedia ed è docente di Comunicazione e Giornalismo. Il Cuore del mondo è diventato un blog indipendente ospitato da ilgiornale.it. Giornalista e scrittore, nel 2006 pubblica il suo primo libro edito da Guerini e associati editore, “Gli stregoni della notizia. Da Kennedy alla guerra in Iraq: come si fabbrica informazione al servizio dei governi”, dove focalizza le proprie ricerche accademiche sul fenomeno dello spin. Nel 2010 pubblica Il ragazzo del lago, dove raccoglie le testimonianze di Aimone Canape, uno dei pochi partigiani ancora in vita tra quelli coinvolti nella cattura, nel 1945 di Benito Mussolini, tra Musso e Dongo. In attesa della pubblicazione del suo terzo libro, prevista per il maggio 2012, ospite dell’ASRI a Zurigo, ha tenuto una conferenza dal tema: “Possiamo ancora credere ai governi? Il ruolo dei media tra informazione e manipolazione".  

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( Nelle foto Marcello Foa, durante l'intervista all'Hotel Savoy di Zurigo ).

 Intervista:

Mi commenta a caldo la rottura tra Mediaset e il Direttore del TG4 Emilio Fede?

Negli ambienti giornalistici era risaputo che il rapporto era logorato da qualche tempo, poi c’è stata questa notizia sul suo tentativo di depositare una presunta somma di denaro a Lugano, vicenda della quale non conosco i contorni, ma penso non sia stato questo l’elemento fondamentale…non dimentichiamo anche, l’età di Fede, forse un rinnovo era necessario. Da un punto giornalistico era il momento, aveva un modo di fare giornalismo obsoleto.

Nel mondo dell’informazione oggi, ci sono più degli showman che dei giornalisti.

La televisione spinge al protagonismo, per cui che ci sia una dose di showman, è implicita, ma non solo in Italia. Forse in Italia, nel caso di Fede, Santoro, Mentana, sono loro stessi che dimostrano, come la televisione dia l’illusione, di essere più forti della televisione stessa. Di poter interpretare il pubblico in modo esclusivo, la realtà dei fatti dimostra che non bisogna, mai peccare di superbia, in questo lavoro.

I media, italiani, rispecchiano i propri utenti?

Una parte alimenta l’altra quindi direi di sì. Il pubblico di Santoro ha una certa fisionomia, quello di Mentana anche, chi guarda il tg1 da sempre risponde a una tipologia, dove c’è un’identificazione delle due parti.

C’è qualche figura che possiamo tenere come riferimento nel giornalismo di oggi?

In televisione direi che chi cerca di fare giornalismo è la Gabanelli, con qualche scivolata o errore. I tg sono in forte crisi, il loro audience è sempre più basso, e la media dei telespettatori ha un’età altissima, dai 65 ai 70 anni, questo in Italia, ma anche un po’ dovunque. Di conseguenza c’è un’assenza di giornalisti di qualità.

Perché i tg con delle notizie soft e di gossip hanno uno share maggiore, rispetto a un tg classico?

Oramai anche il tg è diventato uno svago, dopo una giornata di lavoro o di studio, la gente a casa non ha voglia di impegnarsi. Si cercano notizie frivole, perché sono diventate un gusto condiviso. Un giornalismo leggero, che allieta, che non angoscia, dal punto di vista del mercato è un’operazione che ha un senso da quello giornalistico, è una via di mezzo tra intrattenimento e giornalismo.

Lei ha lavorato molti anni al Giornale, vicino a Indro Montanelli, che ricordo ha di lui?

Indro Montanelli è un grande rimpianto. Io sono un montanelliano da bambino, e di lui ho un ricordo bello. Al Giornale, per noi, lui era uno zio paterno che incoraggiava soprattutto i più giovani e mai si atteggiava, a vip o a star, era un’umanità autentica, aveva i suoi difetti le sue vanità, ma c’era un autenticità nel personaggio, una signorilità nel tratto che lo contraddistingue ad oggi nel suo ricordo.

Lei ha un suo blog, “Il cuore del mondo”, ospitato da Il Giornale, è riuscito a rimanere una voce indipendente, in questi anni ?

Sì, ho avuto questo grande privilegio. Io sono sempre stato un montanelliano dichiarato di vecchia generazione, e nessun direttore, in questi anni, mi ha mai forzato a scrivere cose che non pensavo, e ho avuto molta libertà di giudizio, il fatto che il mio blog, ospiti degli articoli piuttosto coraggiosi, e a volte non in tendenza con le linee editoriali, lo dimostra. Sono sempre stato libero, con la contropartita, che (ma questo vale per tutti i giornali), se tu ti tieni fuori da certi schemi, da certe logiche, forse vai meno in prima pagina e magari sei meno valorizzato rispetto ad altri, quindi se uno fa una scelta d’indipendenza di pensiero, corre questo rischio, ma io personalmente non ho mai avuto dubbi e riconosco con molto piacere, che non ho mai avuto pressioni, mi sono sempre relazionato bene con tutti i direttori, forse un po’ con meno con Feltri, ma con tutti gli altri, sì.

È possibile che un giornale, possa rimanere fuori dai giochi di potere e della politica?

Qualche giornalista sì, i singoli, una testata non penso.

Come fa un cittadino a capire se un’informazione è manipolata oppure no?

Le giro la domanda: Lei crede che un cittadino voglia davvero saperlo?

Io credo che alcuni lo vogliano sapere…

Il discorso è complesso, diciamo che riferendoci all’Italia, se si leggono in maniera incrociata certe testate e certi siti, con uno spirito critico di giudizio, si riesce a farsi una visione della realtà più ampia, il punto è che poche persone hanno, la cultura e il tempo, per un’informazione incrociata e comparata.

Lei nel 2011 ha lasciato l’Italia, per tornare a lavorare in Svizzera in Ticino, come mai?

Perché ho ricevuto una proposta interessante, guidare un gruppo multimediale, Timedia. Da un punto di vista logico, non si dovrebbe lasciare l’Italia, che è considerata una grande piazza mediatica, per tornare in Ticino, ma mi ha stimolato il fatto di tentare di percorrere un cammino sul quale tutti vogliono andare, ma dove non sono state ancora create le formule vincenti, di fondo c’è una sfida intellettuale molto importante, che mi è piaciuta molto.

Lei si sente più svizzero o più italiano?

Mi sento svizzero in Italia, e italiano in Svizzera. La mia cultura di riferimento è l’Italia, dove poi ho lavorato per vent’anni e questo chiaramente incide, ma tornato in Ticino in pianta stabile, mi son trovato a casa, perché avendo studiato in Ticino, non ho avuto quel salto culturale quella diffidenza, quelle incomprensioni che sono tipiche di una realtà nuova. Ho un approccio bidirezionale.

Lei che giornali legge?

Ho poco tempo in realtà per leggere, diciamo che do sempre uno sguardo ai maggiori quotidiani italiani e svizzeri.

E che TG segue?

Nessuno, sempre per motivi di tempo, ma le news ventiquattro, sia Rai, Mediaset, Sky, perché le notizie scorrono in qualsiasi momento e sono sintetiche.

I giornali on- line possono sostituire quelli cartacei?

A breve penso di no. Saranno giornali Ipad non on- line, e non nella formula in cui oggi li usiamo, il percorso che abbiamo intrapreso è inevitabile, siamo in una transizione molto forte, per fortuna non cosi rapida e traumatica, ma da qui ai prossimi dieci anni, non credo che la carta scomparirà, anzi forse tenderà a essere un fenomeno elitario o di settore, specialistico.

Lei nel suo primo libro, “Gli stregoni della notizia. Da Kennedy alla guerra in Iraq: come si fabbrica informazione al servizio dei governi”, nel 2006, si è occupato del problema della manipolazione delle notizie. Che cosa è cambiato oggi?

La situazione è peggiorata.

Come si fa a rimanerne fuori?

Non possibile, noi siamo degli obiettivi inconsapevoli. La mia tesi è controcorrente, e penso ci siano due tipi di problemi di fondo; da una parte, c’è l’influenza del padrone, e poi ci sono meccanismi che colpiscono il giornalista stesso. Manca la consapevolezza nelle redazioni, fanno sì che i giornalisti cadano facilmente nella trappola, per cui propaghino informazioni che in teoria son verificate, ma in realtà non lo sono o vengono manipolate alla fonte.

Tra tutti i suoi impegni, trova il tempo per scrivere dei libri…

Sì, il mio terzo libro esce a maggio.

Ci può dare qualche anticipazione?

È una storia umana, vera, molto toccante, non è storica, avviene nel 1980, dove il protagonista è un bambino cileno, che vive in un paese sperduto poverissimo, a duecento chilometri da Santiago, il quale ha una vita durissima, vede la madre uccisa, nessuno si occupa di lui, vive per tre anni, da solo nel bosco, a contatto della natura. Non è amato, non ha istruzione, è invisibile, la cosa bella avviene quando è adottato da una coppia di Milano. È molto toccante…inquietante. Oggi è padre di famiglia, è una bella storia di adozione.

Riferendoci al suo secondo libro, “Il ragazzo del lago”, come mai le è venuta l’idea di indagare, su un tema e fatti storici, cosi dolorosi per l’Italia e per gli italiani stessi, che per allontanarlo quasi non se parla?

Io credo alle coincidenze, questo libro mi è capitato. Sul piano filosofico, è un cammino, non ho cercato questo libro mi è arrivato, nel senso che un amico carissimo, mi ha presentato Aimone, io volevo intervistarlo per il giornale, lui non voleva, ma alla fine si è convinto di fare questo libro, e la casa editrice, mi ha convito a scriverlo come romanzo storico, non come testimonianza storica, quindi son periodi storici verificati. La storia è documentata.

Quanto lavoro le ha richiesto?

È stato il mio primo romanzo, e di conseguenza ho sbagliato i tempi. La stesura, è stata rapida, tre quattro mesi, ma la verifica è stata la parte più laboriosa, ho lavorato come un pazzo.

Lei insegna giornalismo…cosa vorrebbe si “portasse a casa” dopo aver partecipato a un suo modulo, un giovane che vuole intraprendere la carriera?

Vorrei si portasse a casa l’attenzione del problema dello spin, la manipolazione dei media, al quale dedico sempre un paio di ore di lezione. E poi un atteggiamento non divistico verso la professione. Trattare tutti alla pari, come faceva Montanelli. Non sentirsi superiori. Il giornalismo crea un’illusione di popolarità, e di potere, ma come arriva, va…non c’è niente di duraturo. Bisogna saper vivere il successo in armonia, se arriva, e non perdere una certa umiltà, neanche di fronte a successi di popolarità improvvisa, ma quasi nessuno ci riesce.

Questo non succede in tante altre professioni?

Sì, ma il giornalista tende a essere particolarmente sensibile, egocentrico. Se uno è egocentrico, è sensibile al complimento, al palco, alla platea, alla ruffianata.

Poi magari è una questione di età…

Sì esatto, quando si è troppo giovani, è difficile gestire il successo, bisogna essere maturi. Poi ci sono persone, che hanno un successo immeritato, altre alle quali pur meritandolo non arrivano mai. Nel giornalismo italiano, dove spesso si entrava per raccomandazione, accadevano questi casi, ma adesso con la scuola di giornalismo, le cose sono cambiate. Un bravo giornalista che fa uno stage è notato per la sua bravura, quindi certi meccanismi si sono interrotti per fortuna.

E noi lo speriamo davvero ….

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