“Perché dovremmo sottoporci, di quando in quando, ad una terapia dell’oblio? Perché imparare a dimenticare? Imperativi del genere non entrano in contraddizione con il monito che ci andiamo ripetendo e che ci viene ripetuto ogni giorno su quanto siano fondamentali il ricordo e la memoria? E quali sarebbero i danni della memoria?

Ciò che sostengo in questo libro è che oggi più che nel passato il ricordo si intreccia in modo eccessivo con il presente. Si intreccia cioè con quello in cui ‘crediamo’ nel momento in cui formuliamo le nostre ipotesi sul passato. In aggiunta, ciò avviene in molti casi, anzi quasi sempre, senza che ce ne rendiamo conto. Tale aggrovigliamento tra passato e presente ci intossica. E ci impedisce di porre dei punti fermi che consentano, all’occorrenza, di voltare pagina. Per questo dovremmo tenere meglio separati il passato e il presente”. È la questione di fondo sulla quale si interroga Paolo Mieli nel suo ultimo libro, “La terapia dell’oblio. Contro gli eccessi della memoria”, pubblicato da Rizzoli. Balzac sosteneva che “i ricordi rendono la vita più bella, dimenticare la rende più sopportabile”, mentre Borges nella “Biblioteca di Babele” lascia che i suoi personaggi individuino nell’oblio “una forma di memoria” e Dante alla fine del Purgatorio vuole che il fiume Lete permetta alle anime dirette al Paradiso di lavarsi dei propri peccati, rimuovendo così la memoria delle cose cattive del passato. Se il tema dell’oblio è stato a più riprese trattato dalla letteratura, anche le scienze umane negli ultimi anni l’hanno posto al centro della loro riflessione: tra i tanti titoli, basta menzionare i recenti “Elogio dell'oblio. I paradossi della memoria storica” di David Rieff (pubblicato in Italia da Luiss University Press), “Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia” di Marcello Flores (Il Mulino) e “I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe” di Valentina Pisanty (Bompiani). “Dovremmo essere vigili anche nel caso in cui non è nelle nostre intenzioni lasciarci sedurre dalla tentazione di un uso politico o manipolatorio della storia. Quando si hanno idee forti sul presente, è pressoché inevitabile che quelle idee si impongano sulle interpretazioni del passato” sottolinea Mieli, che spiega come ciò sia sempre accaduto “eppure adesso i rischi sono maggiori. Perché? Ritengo che il progresso scientifico e tecnico inondi le nostre menti di un eccesso di dati conoscitivi, notizie e informazioni che rischiano di generare un grande disorientamento” e “per questo, anche per questo, necessitiamo tutti di imparare ad autosomministrarci, sapientemente, una dose di oblio”. Tra “curiose amnesie” e “dimenticanze sospette”, l’autore mette in luce i danni da “eccesso di memoria” prendendo in esame decine di eventi ed episodi del nostro passato, dalla storia antica al Medioevo fino ai nostri giorni: dal ruolo – mal compreso e peggio ricordato – di Caracalla imperatore di Roma a Carlo Magno, da Bisanzio “oscurata” da Costantinopoli alla Napoli rivoluzionaria di fine Settecento, dedicando infine due capitoli alle “teorie cospirazioniste e gli untori del discorso pubblico” in tempo di pandemia e alla Shoah.  “L’Italia – afferma il giornalista e storico - è un paese unico nel non esser capace di consegnare il passato agli storici. Ci sentiamo quasi obbligati a riproporlo ossessivamente annodato alle passioni del presente. E non riusciamo mai a chiudere un capitolo una volta per tutte. Ad accettare che – come spesso è stato nella storia – alcuni punti restino oscuri. E, ugualmente, ad andare oltre”.