Una quantità d’acqua pari ad almeno tre volte quella presente negli oceani terrestri. Un gruppo internazionale di studiosi l’ha osservata nella parte interna del disco di polveri e gas che ruota attorno alla stella HL Tauri, a 450 anni luce dal nostro pianeta. I risultati dell’indagine – pubblicati su Nature Astronomy – mostrano la presenza di una grande quantità di vapore acqueo distribuito in modo stabile in una regione precisa: una configurazione che offre le condizioni ideali per il processo di formazione dei pianeti, proprio come accadde 4,5 miliardi di anni fa nel nostro Sistema Solare. “Fino ad oggi non era mai stato possibile mappare il modo in cui l’acqua è distribuita all’interno di un disco "protoplanetario", ovvero nelle regioni simili a dove presumibilmente si sono formati i pianeti del nostro Sistema Solare e dove si stanno formano altri sistemi planetari”, dice Leonardo Testi, professore al Dipartimento di Fisica e Astronomia "Augusto Righi" dell’Università di Bologna.

In attesa di Einstein Telescope, nell’area dell’ex miniera di Sos Enattos, in Sardegna, sono già in corso esperimenti che stanno producendo risultati scientifici interessanti, come l’esperimento di fisica fondamentale Archimedes, coordinato dall’INFN, che ha recentemente pubblicato su “The European Physical Journal Plus” (EPJ Plus) i suoi primi risultati, segnalati anche tra gli Highlight dalla rivista. Operativo nel laboratorio SAR-GRAV a Sos Enattos, Archimedes punta a misurare l’interazione tra le fluttuazioni del vuoto elettromagnetico e il campo gravitazionale: in particolare, il gruppo di ricerca dell’esperimento ha realizzato una bilancia, prototipo di quella che sarà utilizzata per Archimedes, con una sensibilità nella banda di frequenze comprese tra i 20 e 100 millihertz, compatibile con il rumore termico.

Una quantità d’acqua pari ad almeno tre volte quella presente negli oceani terrestri. Un gruppo internazionale di studiosi l’ha osservata nella parte interna del disco di polveri e gas che ruota attorno alla stella HL Tauri, a 450 anni luce dal nostro pianeta. I risultati dell’indagine – pubblicati su Nature Astronomy – mostrano la presenza di una grande quantità di vapore acqueo distribuito in modo stabile in una regione precisa: una configurazione che offre le condizioni ideali per il processo di formazione dei pianeti, proprio come accadde 4,5 miliardi di anni fa nel nostro Sistema Solare.

Dopo 17 anni di attività, il satellite scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) AGILE (Astrorivelatore Gamma a Immagini LEggero) è rientrato in atmosfera ponendo così fine alla sua intensa attività di cacciatore di sorgenti cosmiche tra le più energetiche dell’Universo che emettono raggi gamma e raggi X.  AGILE ha rappresentato un programma spaziale unico e di enorme successo nel panorama delle attività spaziali italiane. AGILE è stato realizzato dall’ASI con il supporto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), di università e dell’industria italiana, con OHB Italia, Thales Alenia Space, Rheinmetall e Telespazio. In oltre 87.200 orbite intorno alla Terra, AGILE ha monitorato il cielo alle alte energie osservando una grande varietà di sorgenti di raggi gamma galattiche ed extra galattiche, evidenziandone i cambiamenti molto rapidi, frequenti episodi di emissione X e gamma provenienti da stelle di neutroni, resti di esplosioni di Supernovae e buchi neri.

In tutto il Mondo i ghiacciai si stanno ritirando a una velocità senza precedenti, e questo sta comportando la perdita delle informazioni riguardanti la storia del clima e dell’ambiente in essi contenute. A perdere la memoria sono anche i ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard, nel Circolo polare artico: lo dimostra per la prima volta uno studio internazionale pubblicato sulla rivista The Cryosphere, guidato da ricercatori dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

 L’origine della balenottera azzurra, il più grande animale vivente sul nostro pianeta, rappresenta un problema ancora irrisolto. Questa particolare specie, che può superare i 30 m di lunghezza e le 70 tonnellate di peso, ha la capacità di organizzare e strutturare le catene alimentari oceaniche. Grazie ai fanoni, una sorta di filtro con cui questi animali estraggono grandi quantità di invertebrati dall’enorme mole d’acqua che entra nella loro bocca, migliaia di prede vengono catturate e ingurgitate.

Si è tenuto a Wellington, dal 5 al 16 febbraio, il primo meeting per il lancio internazionale del progetto CATALYST, finanziato dal governo neozelandese, che vede la collaborazione tra il GNS Science (Te Pū Ao) in Nuova Zelanda e, per l’Italia, l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e l'Università di Genova. Il progetto si focalizza sulla valutazione degli effetti di amplificazione sismica di sito sulle stazioni della rete sismica neozelandese ed è stato il primo a inserirsi nel Memorandum of Understanding (MuO) siglato recentemente tra l'INGV e il GNS Science. “Durante un terremoto”, spiega Marta Pischiutta referente INGV del progetto, “le condizioni geologiche locali di sito possono amplificare le onde sismiche, con potenziali, gravi conseguenze per le infrastrutture, come evidenziato sia in Italia, che nei recenti terremoti neozelandesi di Canterbury.

L’Ambasciata d’Italia ad Abu Dhabi ha celebrato la giornata dello spazio con un seminario dedicato alla collaborazione tra Italia e Emirati Arabi Uniti nel settore spaziale. L’evento si è tenuto presso la Khalifa University, la più prestigiosa università dedicata alle scienze applicate degli Emirati Arabi Uniti, e ha visto la partecipazione di circa 100 persone tra studenti, ricercatori, esperti e membri delle forze armate emiratine. Il seminario si è articolato in tre sessioni dedicate ai progetti di collaborazione esistenti tra Italia e Emirati, alle recenti scoperte nel campo dell’esplorazione spaziale e alle tecnologie spaziali sviluppate presso la Khalifa University, dove operano anche molti ricercatori italiani.

Un gruppo internazionale di ricerca è riuscito a tracciare per la prima volta il più esteso campo magnetico all’interno di un ammasso di galassie. L’ammasso in questione è quello di “El Gordo”, il più massiccio mai osservato a grandi distanze, risalente a quando l’universo aveva circa 6,2 miliardi di anni, poco meno di metà della sua età attuale. I risultati – pubblicati su Nature Communications – offrono nuove fondamentali indicazioni per la comprensione della composizione e del processo di evoluzione degli ammassi di galassie.








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