Tra le malattie genetiche che, ad oggi, non hanno una cura, ci sono le cosiddette malattie mitocondriali, le cui manifestazioni, spesso particolarmente gravi, possono interessare organi e tessuti dell’organismo. La variabilità di queste malattie, inoltre, rende particolarmente difficile riconoscerne l’insorgere. Le malattie mitocondriali hanno origine da un’inadeguata produzione di energia da parte della cellula la quale, sostanzialmente, manifesta una disfunzione nella catena respiratoria.

Si tratta di malattie che non risparmiano l’apparato muscolare, il sistema nervoso centrale e periferico, così come le vie visive e uditive, il sistema gastroenterico, i reni, il sistema endocrino, il sistema cardiocircolatorio e il sistema ematopoietico. Da Padova, però, sembra arrivare più di un barlume di speranza per la cura di queste malattie. Il riferimento è allo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Padova, coordinati dai professori Carlo Viscomi e Massimo Zeviani, direttori del laboratorio di Medicina Mitocondriale dell’ateneo, recentemente pubblicato su “Brain”. In questo studio, i ricercatori padovani hanno individuato un possibile nuovo approccio nella ricerca di una cura per le malattie mitocondriali. Lo spiega così il professor Viscomi: “La catena respiratoria delle cellule è costituita da proteine di grandi dimensioni che permettono alla cellula di respirare. Uno di questi complessi proteici include, tra le circa quarantacinque che lo compongono, la proteina codificata dal gene Ndufs4, le cui mutazioni sono responsabili di una grave encefalomiopatia detta Sindrome di Leigh. Abbiamo visto che introducendo nelle cellule di un modello murino della malattia, mancante del gene Ndufs4, la forma originale del gene attraverso virus modificati in modo da impedirne la replicazione, si ottenevano risultati molto incoraggianti nel migliorare il decorso della malattia”. Nello studio si illustra il modo in cui i ricercatori hanno sviluppato un virus AAV in grado di riesprimere il gene umano Ndufs4e lo hanno introdotto in cavie, con ben quattro su cinque che sono sopravvissute, oltre i sei mesi rispetto alle sei settimane di vita delle cavie che non hanno subito il medesimo trattamento, manifestando pure un minore deficit neurologico di tipo motorio, e minori deficit biochimici.